Uno sforzo..olimpico!

Ci sono gare che entrano nella storia per le prestazioni dei singoli atleti, per dei record battuti o per la particolare spettacolarità della gara stessa. Ma ce ne sono altre che seppur non di alto livello tecnico vengono ricordate per situazioni così straordinarie da emozionare i tifosi di tutto il mondo. Gare in cui ad essere esaltati sono i veri valori sportivi che magari ai protagonisti non regalano vittorie, medaglie o gloria ma che gli fanno acquistare il rispetto e la stima dell'opinione pubblica. Sono proprio queste le gare che più di altre ci piace raccontare e divulgare. Ecco allora che la storia descritta nelle prossime righe ci aiuta a capire meglio di cosa stiamo parlando.
La gara in questione è la maratona femminile dei Giochi Olimpici di Los Angeles del 1984. E' il debutto assoluto, almeno per quanto riguarda le donne, per la maratona alle Olimpiadi anche perchè non è da molto tempo che questa disciplina è stata allargata al femminile. Infatti, almeno fino al 1967, la maratona era considerata troppo pericolosa per le donne e le prime temerarie pur di correre dovevano mescolarsi agli uomini camuffandosi e  iscrivendosi sotto falso nome, poi, finalmente in quelle più importanti (New York, Boston) si aprì anche al gentil sesso, ma per la prima maratona ufficiale tutta al femminile bisogna aspettare il 1973 (a Waldniel in Germania Occidentale). Questo preambolo è doveroso anche per spiegare la grande attesa che c'era attorno a quella gara. A Los Angeles ci si attende uno scontro a tre. Le favorite sono l'americana Joan Benoit che deteneva il record mondiale, la norvegese Grete Waitz prima grande interprete di questa disciplina e la portoghese Rosa Mota campionessa europea in carica. E' il 5 agosto 1984, alle 8 del mattino sullo stesso percorso maschile ha inizio la gara. La giornata si preannuncia calda, di più, torrida, già a quell'ora il caldo comincia a farsi sentire. Dopo soli 5 km la Benoit prova l'allungo e si porta sola al comando, sembra un'azzardo anche perchè l'americana è reduce da un intervento al ginocchio e bisogna capire se ce la fa a reggere fino alla fine. Dietro si forma un gruppetto che comprende anche la nostra Laura Fogli (alla fine sarà nona). Si va avanti così per diversi chilometri poi il gruppetto delle inseguitrici si assottiglia fino a che non rimangono solo la Waitz, la Mota e l'altra norvegese Ingrid Kristiansen. La Benoit però non crolla, anzi, piano piano sembra sempre più allungare e comincia a pregustare la vittoria. Tra il 30° e il 35° km la Kristiansen si stacca definitivamente e la Waitz allunga sulla Mota e il gioco è fatto. Per la Benoit è un trionfo e tutto lo stadio applaude e inneggia alla beniamina di casa. Sono quasi le 11, la Benoit è arrivata da una ventina di minuti, i 77mila del Memorial Coliseum si stanno divertendo ad assistere a una sorta di volata della disperazione per il 29° posto fra tre ragazze vinta dalla belga Peeters sull'israeliana Shmueli e Winnie Ng di Hong Kong, quando fa il suo ingresso un atleta alta, con un cappellino bianco in testa e i capelli scuri a caschetto, la maglia e i pantaloncini rossi della Svizzera. Procede con la gamba sinistra completamente bloccata, testa in avanti, il braccio sinistro immobile lungo il fianco, piegata sul lato sinistro del corpo, pare preda a una sorta di delirio, sembra stia per stramazzare al suolo.
Gabriela Andersen-Schiess
faticosamente prova a completare la gara
Le si avvicinano i giudici e due medici, uno dei quali costata l'evidente disidratazione della ragazza ma anche che "sta ancora sudando", quindi in grado di una sufficiente traspirazione ma lei ordina a tutti di non aiutarla. La ragazza si chiama Gabriela "Gaby" Andersen-Schiess ha 39 anni e fa l'istruttrice di sci di fondo nell'Idaho (Stati Uniti). La scena è drammatica. Il pubblico prima si ammutolisce poi capita la situazione si alza in piedi e comincia ad incitare la svizzera. Sono tutti per Gabriela. Il calvario della ragazza è infinito. Percorre il rettilineo fino al traguardo fermandosi diverse volte, il problema è che deve ancora completare l'intero ultimo giro. Gaby si ferma ma riparte sempre, la superano in pista una, due, tre atlete. Alla fine saranno cinque e tutte la incoraggiano, vorrebbero aiutarla ma lei testardamente dice sempre no. Anche le principali televisioni di tutto il mondo si collegano con lo stadio tralasciando per un po le altre gare di giornata, quello che sta accadendo non ha a che fare con le medaglie ma è comunque una pagina di sport. Incredibilmente, la Andersen riesce ad arrivare fino alla linea del traguardo poi stramazza al suolo e viene a lungo rianimata prima di essere portata fuori in barella. Da quando è entrata nello stadio fino al traguardo ha impiegato la bellezza di 5 minuti e 44 secondi, completando l'ultimo chilometro in 18 minuti. Due ore dopo essersi classificata al 37° posto in 2h48'42" la signora Andersen sarà in grado di lasciare con le sue gambe l'infermeria del Coliseum. Tecnicamente il problema che ha avuto non è stata una semplice disidratazione (dovuta al caldo e al salto di un rifornimento idrico) ma più precisamente, Gabriela, è rimasta vittima di una intossicazione per ammonio. Le immagini sofferenti della svizzera fanno il giro del mondo, crea dibattiti, la maggior parte delle persone elogia il coraggio di Gabriela, qualcun'altro, invece, evidenzia l'incoscienza della ragazza per il rischio corso. In seguito dirà: "Non è questione di coraggio ma di determinazione. Avevo quasi 40 anni, quella era e sarebbe rimasta la mia unica Olimpiade, ero arrivata fin lì, dovevo finire la gara". La radice di tanta determinazione va ricercata nella sua storia. Nata in Svizzera nel 1945, sin da piccola è dedita allo sport (corsa e sci di fondo per lo più), nel 1973 si trasferisce negli Stati Uniti dopo aver corso la prima maratona femminile di cui sopra quando aveva già 28 anni, prova più volte a entrare nella nazionale atletica svizzera nel mezzofondo col chiaro intento di coronare il sogno di partecipare ad una Olimpiade ma le distanze corte non le si addicono. Nel 1977 sposa l'americano Dick Andersen si trasferisce a Sun Valley, nell'Idaho. Diventa istruttrice di sci, ma Gabriela continua a coltivare il suo sogno, quando viene a sapere che il CIO inserisce la maratona femminile nel programma olimpico capisce di dover provarci un ultima volta. L'anno prima dei Giochi di Los Angeles dopo aver guadagnato 12.000 dollari vincendo una maratona a Minneapolis riesce a stabilire il suo record personale a Sacramento in 2h33'25". Spedisce il certificato ufficiale della gara alla federazione elvetica e, così, si ritrova selezionata per Los Angeles dove disputa la sua ventesima maratona. Arriva all'Olimpiade senza allenatore, senza dietologo, preparandosi da sola. In gara non vede letteralmente il rifornimento al 38° km, probabilmente già in difficoltà per disidratazione, forse per vergogna non dice di averne saltati due di rifornimenti. "Quando sono entrata in pista sapevo di percorrere un giro intero: ma semplicemente il mio corpo non rispondeva". Dopo una flebo e diverse spugnature fredde si riprende anche se rimarrà in osservazione al Villaggio, si alza solo perchè i giornalisti  pretendono di parlarle. Le chiedono se quella è stata la sua ultima maratona, risponde che doveva essere così ma non se la sente a chiudere in questo modo. Così ad ottobre si iscrive alla maratona di New York dove arriva undicesima, tagliando il traguardo a braccia alzate. Dirà: "Mi vergogno un po per la scena di Los Angeles, per questo a New York ho alzato le braccia come se avessi vinto. Avrei voluto farlo anche all'Olimpiade ma quel giorno niente rispondeva alla mia volontà, volevo farlo perchè era il coronamento di un sogno che mi ha accompagnato per buona parte della mia vita"
Gabriela taglia (finalmente) il traguardo

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